1948, la “Terni” licenzia 2.200 persone

Quella mattina del 14 novembre 1948 i dipendenti del gruppo “Terni” trovarono un manifesto affisso all’ingresso delle fabbriche. Conteneva un lungo elenco di nomi. Erano quelli dei lavoratori licenziati a far data da quella mattina: 2.200. Alle acciaierie di Terni, a Papigno e Nera Montoro, nelle miniere di Bastardo e Morgnano, al cementificio di Spoleto. Era tutta l’Umbria ad essere colpita. Con un semplice annuncio, su un manifesto, a cose già fatte. La lotta, per i lavoratori, si annunciava dura.
A Bastardo e a Morgnano i minatori, però, avevano tirato dritto ed erano scesi tutti quanti in galleria, senza tener conto dell’elenco di nomi sul manifesto. I licenziamenti erano respinti al mittente. Il conto più salato avrebbero dovuto pagarlo proprio loro, i minatori: tremila erano troppi, sosteneva la “Terni”, che perciò proponeva di mandarne a casa quasi la metà: 1.200, tra Morgnano – appunto – e Bastardo. “Prima della guerra – fu detto ai rappresentanti dei lavoratori – producevamo più lignite con novecento dipendenti, e non tremila. La nostra lignite al momento à più costosa del carbone. Le miniere ce le abbiamo e ci tocca tenercele, però dobbiamo mandare a casa un po’ di gente”. Volendo, c’era un’alternativa: turni ridotti a 32 ore settimanali (la paga si abbassava in modo consistente) a partire da subito. In questo modo sarebbe stato sufficiente licenziare “solo” 475 persone. Mica prese a caso, comunque! La “Terni”, mantenendo una dose di “volto umano”, aveva indagato sui dipendenti ed aveva scelto “per metà tra i vecchi, ossia – si spiegava – tra coloro che sono molto in là con l’età, e per metà tra gli autosufficienti, e cioè tra coloro che in seguito alle indagini sono risultati proprietari di piccoli appezzamenti di terreno, oppure in condizioni familiari meno disagiate, o nella condizione di trarre profitto da altre attività”.
Mentre i minatori erano in tale situazione i lavoratori degli altri settori dovevano far fronte ai guai loro. Cento erano i licenziati a Nera Montoro (chimica); duecento a Papigno (calciocianamide); 94 alle cementerie di Spoleto. Alle acciaierie di Terni si era partiti con quasi mille licenziamenti, poi ci si era limitati a seicento. Comunque per tutti coloro che sarebbero rimasti senza lavoro – si assicurava – c’era pronta una pensione extra (da aggiungere a quella dell’Inps) di ottomila lire al mese, oltre alla liquidazione che ammontava a cento-centoventimila lire.
La risposta fu lo sciopero. Articolato e a scacchiera. Mentre si avviava la mobilitazione. Si mossero tutti i partiti politici, ovviamente i sindacati, le istituzioni pubbliche. Fu proclamato uno sciopero generale dell’Umbria che fu fissato per il 23 novembre. Il Ministero degli interni si preoccupò di rinforzare le schiere delle forze dell’ordine che, per il giorno della manifestazione, potettero contare su mille uomini. Ma durante lo sciopero non ci fu alcun problema di ordine pubblico.
Una settimana dopo, il 30 novembre, si firmò l’accordo “Terni”- sindacati. Niente licenziamenti, ma dimissioni volontarie con incentivo (il corrispettivo di 1.100 ore di paga); chiusura delle due miniere minori di Branca (nel Perugino) e di Colle dell’Oro (nel Ternano). Sembra cronaca di fatti recenti.
I licenziamenti massicci, sventati nel 1948, arrivarono lo stesso, però. Anche se qualche tempo dopo. E furono dolori.

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