1943, estate d’angoscia per il Gerarca Cianetti: “E’ corrotto”

L’estate del 1943 fu una brutta stagione per Tullio Cianetti, specie nel periodo che seguì la notte del 25 luglio 1943, quando il Gran Consiglio del Fascismo “sfiduciò” Mussolini provocandone le dimissioni da capo del Governo. Un governo nel quale Tullio Cianetti era solo da qualche mese Ministro delle Corporazioni dopo essere stato per molti anni sottosegretario.

Una bella carriera, non c’è che dire, quella che aveva portato una “camicia nera” di Assisi, alla segreteria del fascio di Terni, alla camera dei deputati e quindi nel Gran Consiglio del Fascimo e nel governo.

Ma quel governo, appunto, era caduto alla fine di luglio. Anche Cianetti votò per “ribaltare” Mussolini, ma si pentì nel giro di poche ore e si scamiciò nello spergiurare e cercare di dimostrare che lui sì, aveva firmato, ma s’era trattato di un equivoco, aveva capito male, dichiarava che la sua firma era nulla e che non contava anche se figurava ben leggibile in calce all’ordine del giorno Grandi. Non esitava, insomma, da assegnarsi la patente di sprovveduto (e manco poco) e a dchiarare la propria fedeltà incrollabile al Duce.

Estate cianetti
Il ministro Cianetti

La cosa non gli evitò di essere in seguito arrestato come traditore, insieme a tutti gli altri firmatari dell’ordine del giorno. Ma lui fu l’unico tra i gerarchi imputati, a cavarsela con una condanna al carcere e salvando la vita. Tutti gli altri – come noto – furono fucilati dai soldati della Repubblica Sociale.

Figurarsi in quale stato di ambascia – anche se il 3 settembre 1943 non era stato ancora ammanettato – passasse quella calda estate. Ma, appunto, il 3 settembre 1943 un’altra tegola gli cadde in testa: il governo del generale Badoglio, succeduto a Mussolini, favorì un’indagine da parte della Finanza tesa a smascherare alcuni gerarchi in odore di corruzione. Fu uno scandalo clamoroso: ci andarono di mezzo alti gerarchi, ambasciatori, deputati, ministri. I contorni precisi della vicenda non si conoscevano ancora, ma alcuni nomi furono resi noti: Roberto Farinacci, Pietro Brandimarte, Edmondo Rossoni, Giuseppe Bottai, Achille Starace, Bruno Biagi, Leandro Arpinati, Piero Gazzotti e – dulcis in fundo – Tullio Cianetti. Tali nomi furono fatti trapelare anche perché si riteneva che loro, in mezzo ad una vasta schiera di corrotti, fossero quelli che non ci erano andati giù “lisci” e che avevano accumulato vere e proprie fortune, per cui il loro patrimonio fu interamente sequestrato.

Povero in canna, con quegli incalzanti dubbi: Mi avranno creduto o non mi avranno creduto? Mi condanneranno questi perché Gerarca o quegli atri perché traditore?. Perché lui lo sapeva che si stava lavorando per istituire le Repubblica di Salò dato che Badoglio sembrava favorevole a trattare l’armistio (lo firmò proprio quel 3 settembre anche se fu reso noto l’8) con gli alleati.

Quello che si dice un periodaccio, insomma, per Tullio Cianetti, il gerarca “padre” dei sindacati fascisti, che aveva sacrificato al partito tutta la sua vita: “nemmeno con le donne sono più andato”, disse ai giudici del tribunale speciale della Rsi.

Si salvò dalla fucilazione, si fece alcuni anni di carcere ed appena ne uscì volò lontano, in Uruguay

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