Quelli furono anni brutti per i preti. Nel 1810 Antoine Marie Roederer, prefetto del dipartimento francese del Trasimeno, di cui Terni faceva parte, ordinò l’applicazione del decreto imperiale e della deliberazione della consulta emessi pochi giorni prima: tutte le case religiose erano soppresse; preti, frati e monache dovevano sloggiare da conventi e monasteri e tornare a a casa, nel luogo dove erano nati. E non solo: vescovi e canonici dovevano prestare giuramento di fedeltà all’impero. In caso contrario sarebbero stati sequestrati tutti i loro beni patrimoniali o dipendenti da benefici ecclesiastici e dal canonicato. Il prete refrattario poteva essere arrestato e deportato. Al vescovo di Terni, Carlo Benigni, non dettero nemmeno il tempo di pensarci su: fu subito spedito in esilio, ovviamente dopo il sequestro dei beni. Due anni dopo, il maire di Terni (il capo della municipalità veniva indicato con l’appellativo francese) impose di andarsene al parroco della cattedrale. La motivazione, ovviamente, fu che entrambi si erano rifiutati di giurare fedeltà ed ubbidienza all’imperatore.
Il prefetto Roederer poteva così vantarsi, poche settimane dopo, che nel suo dipartimento erano stati deportati nove vescovi su 12; avevano giurato 293 canonici su 477, 710 curati su 989, 500 religiosi su novecento. Un quadro che, se non altro, rende l’idea della consistenza del clero che, nel dipartimento Trasimeno, poteva contare su più di duemila appartenenti. E consistenti furono i beni finiti in proprietà al demanio pubblico, «beni immensi tanto in case che in terre». Il tutto messo all’asta ed acquistato da coloro che potevano permetterselo, nobili e proprietari terrieri i quali colsero al volo l’occasione di rimpinguare il loro patrimonio.
Figurarsi il braccio di ferro che ne seguì, quando il vescovo Benigni, finito l’impero, volle che tutto ritornasse alla Chiesa. Le resistenze furono forti, ma per il vescovo, non era possibile che i laici avessero preso possesso delle chiese, dei monasteri, dei luoghi pii, «rubando tutto quel che c’era». La scomunica, ci voleva. E la chiese, monsignore, al papa per i patrizi ternani «che intendevano conservare le refurtive».
Con Napoleone sconfitto e inviato all’isola d’Elba, lo stato pontificio stava risalendo “a cavallo”.
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