I due, romani, poco più di trent’anni, ci provarono a far credere che non sapevano che quella pala d’altare del XIV secolo che avevano nel portabagagli della Fiat “Millettré” valeva oltre trecento milioni di lire. Lire di allora, gennaio 1965. La pala era stata rubata nella chiesa parrocchiale di Cesi il 21 novembre 1964, mentre gli esperti d’arte erano impegnati nella disputa se essa fosse da attribuire a Pietro Cavallini, importante esponente della scuola pittorica romana del periodo tra XIII e XIV secolo, o ad un ignoto artista umbro.
I due romani, furono bloccati il giorno dopo la Befana, a Tor Lupara. Erano sospettati di far parte di una banda che esportava opere d’arte trafugate. Li intercettarono i carabinieri che operavano per conto della commissione speciale che il governo italiano aveva costituito, per recuperare opere d’arte portate all’estero durante la guerra. A capo della commissione c’era Rodolfo Siviero, storico dell’arte, ma pure ex agente segreto e partigiano.
I due romani avevano offerto in vendita – riferirono – quell’opera d’arte ad un industriale lombardo molto noto all’epoca, se non altro per essere l’ex marito di Maria Callas: Giovambattista Meneghini. Il commendatore – aggiunsero–_ aveva già comprato da loro un quadro del 1300 per la sua villa di Sirmione. Era in parola anche per la pala, che raffigura la Madonna in trono col Bambino in braccio, circondata dagli Apostoli.
Gli uomini di Siviero ebbero la possibilità di recuperare, così, non una ma due opere d’arte rubate. Meneghini consegnò il dipinto del 1300, già in suo possesso, tre minuti dopo che i carabinieri avevano bussato alla porta della villa.
Le opere furono portate in un luogo sicuro di Roma per essere esaminate dagli esperti. A Cesi, sentenziarono questi, un’opera così preziosa non poteva tornare: non c’erano le condizioni di sicurezza. La Pala avrebbe preso un’altra strada.
Non avevano fatto i conti con gli abitanti di Cesi e col loro attaccamento a quell’immagine sacra. I parrocchiani protestarono, rivendicando quel dipinto che aveva accompagnato tante generazioni e che era parte della storia della loro comunità.
Lotta subito dura. Non fossero bastati gli esperti, ci si mise pure il Comune di Terni a piantar grane. «Quell’opera è la nostra» disse il Comune, basta seguire la regola di bazzica: dal 1870 al 1927 quel dipinto stava nel Municipio di Cesi. Nel 1927 il Comune di Cesi fu assorbito da quello di Terni. Scese in campo anche L’Unità, che, grazie a testimonianze, sostenne che all’epoca la pala era rimasta a Cesi solo perché “il parroco del tempo, certo don Celestino, facendo leva sul giustificato attaccamento della gente a questa opera, ottenne che la tela (sic!) fosse addossata all’altare della chiesa di Santa Maria”. E’ ovvio, continuava l’Unità, che lì non poteva stare per motivi di sicurezza, ma che era giusto nemmeno che andasse a finire negli scantinati dei musei Vaticani. Ergo, va consegnata alla Pinacoteca di Terni.
La battaglia si faceva cruenta. Non metti l’avvocato a questo punto? Il parroco incaricò Nicola Molè, del foro di Terni, cresciuto in parrocchia a Cesi, il quale vinse la causa. L’opera tornò nella parrocchiale del paese, con l’impegno di realizzare una struttura di sicurezza adeguata che ancora funziona.
PS. Per la cronaca, gli esperti hanno risolto il busillis sull’autore: è un pittore umbro, anonimo. Così l’hanno chiamato “Maestro di Cesi”. E buonanotte.
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