Fortunato, il killer della Valnerina

 

Acquaro, il piccolo centro della Valnerina sconvolto dalle gesta del killer
Valnerina: Acquaro, il piccolo centro del Comune di Preci sconvolto dalle gesta del killer

Erano in trecento a cercarlo: carabinieri, poliziotti, forestali, vigili del fuoco, persino uomini dei corpi speciali, armati fino ai denti e protetti dai giubbotti antiproiettile. Tutti sguinzagliati sui monti della Valnerina. Mentre un elicottero volteggiava senza sosta. Ma lui, Fortunato Ottaviani, 63 anni, li tenne in scacco per un’intera settimana, dal 12 all’alba del 20 ottobre 1998. Centinaia di uomini: e grappoli di giornalisti, giunti a Preci per raccontare della caccia al “Killer della Valnerina”. La Rai si era mossa in grande stile. Era arrivata anche una troupe di una rete televisiva tedesca. E per sette giorni Fortunato Ottaviani, fu il mostro da sbattere in prima pagina. D’altra parte non è che lui ci fosse andato giù liscio. Ad Acquaro, frazione di Preci, il 12 ottobre 1998 freddò con due colpi di fucile da caccia un giovanotto di 34 anni; mezz’ora dopo, nello stesso modo, ammazzò il padre. Poi scappò nei boschi dei monti Sibillini. Non doveva trattarsi di un bello stare per uno di una certa età, che quando era scappato era in maniche di camicia. Per di più, in quei giorni, pioveva che la mandava. Ma Fortunato traeva energie dal furore della vendetta. «Sono quindici anni che mi rompete», aveva scritto su di un biglietto lasciato vicino alla sua prima vittima. La caccia all’uomo era subito scattata, ma lo sapevano tutti che il “mostro” si sarebbe fatto trovare solo quando avrebbe deciso lui. Nessuno pensava, però, che sarebbe andata tanto per le lunghe.
Dopo qualche giorno di latitanza Fortunato telefonò ad una donna che conosceva: «Non ho finito – le disse – adesso continuo con voi». «Noi? Che c’entriamo noi se lo conosciamo appena? », chiedeva terrorizzata la donna ai carabinieri. E La paura del killer dilagò, nonostante lo spiegamento di forze: elicotteri che volteggiavano sopra le montagne al confine tra Umbria e Marche; uomini armati di mitragliette. Ai funerali delle due vittime c’erano agenti armati, cecchini sui tetti e il solito elicottero in volo. Roba da telefilm americano. Fortunato faceva paura. Era un uomo esasperato. Uno che in vita sua non era mai andato tanto per le spicce. Sempre solo, andava in giro per le campagne con un “apetto” e il cane dietro, sul cassone. Quindici anni prima era finito in galera. Allora frequentava assiduamente la casa di una vedova, e ne mise incinta la figlia, una ragazzina di 13 anni e personalmente tentò di farle perdere il bambino. La ragazzina rischiò la vita e uno zio denunciò Fortunato, che fu condannato a tre anni di carcere. Troppo pochi, hanno sempre pensato i parenti della ragazzina e la gente. Incancellabili certe azioni così turpi. Quando tornò dal carcere non è che potevano accoglierlo a braccia aperte. Non lo fecero. E finì con l’assassinio di due fra coloro che, congiunti della ragazzina, secondo Fortunato, non la smettevano di fargli pesare le sue malefatte. Gli spari, la morte, la fuga. «Resisterà poco», pensavano tutti. Ma s’era organizzato. Qualcuno ricordò che, pochi giorni prima, aveva speso mezzo milione di lire per comprare roba da mangiare. Ma anche dell’altro: aveva pensato proprio a tutto. Maniche di camicia? Macché. Quando otto giorni dopo lo trovarono morto, indossava maglione e giaccone. Aveva con sé un apparecchio con cui riusciva a intercettare le radio delle forze dell’ordine. Ed era bene armato. Oltre al fucile da caccia, un automatico a cinque colpi, aveva una rivoltella e le munizioni in abbondanza.
Fu trovato senza vita a cento metri dalla casa delle sue vittime. Di notte s’era avvicinato. Aveva deciso di uscire di scena in modo plateale. E tornò lì, sul luogo dei delitti, per spararsi un colpo di revolver in testa. S’era convinto che era l’unica cosa che gli restava da fare: in galera non voleva tornarci più.
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