Montecastrilli 1945, moglie e marito assassinati: ergastolo al nipote e due complici

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La giornata di lavoro nei campi stava concludendosi: Francesco Francia e sua moglie Zelinda Ricci, entrambi di cinquant’anni, erano proprietari di un casale con un vasto appezzamento di terreno nella zona di Sant’Egidio, nei pressi di Montecastrilli. Un lavoro duro che li occupava per l’intera giornata, ma anche un capitale che permetteva loro di guardare al futuro con un certo ottimismo. Stavano riponendo gli attrezzi in magazzino quando furono aggrediti ed uccisi barbaramente a coltellate. Era il 13 febbraio 1945.

Le indagini portarono all’individuazione del colpevole. I sospetti si erano subito indirizzati su Gregorio Francia, un nipote della coppia. 22 anni ed una cattiva nomea. Messo alle strette confessò: si, li aveva uccisi lui sperando di ereditare la proprietà del casale e del terreno. Non aveva agito da solo  – riferì ai carabinieri – ma insieme a due complici due uomini di Collestatte che erano in quel periodo nella zona di Montecastrili per lavorare nei campi: Luigi Cornacchia e Esopo Trentanni. I due negarono protestando la loro innocenza e continuarono a farlo davanti ai giudici della Corte di Assise di Terni, ma il loro accusatore non defletté minimamente dalla versione riferita al momento dell’arresto. Tutti e tre furono condannati all’ergastolo.

Era in carcere già da diversi anni Esopo Trentanni, e mai aveva smesso di battersi per dimostrare la prorpia innocenza. Ma la sentenza, seppur impugnata in appello dai difensori, era passata in giudicato e era ormai definitiva. Il condannato poteva sperare solo che accadesse un fatto nuovo, importante che giustificasse una riapertura del processo.

La sua speranza fu premiata, perché il fatto nuovo e importante si verificò. Nel dicembre del 1954 Gregorio Francia inviò una memoria scritta al Procuratore della Repubblica di Terni confermava la propria responsabilità, ma scagionando i due uomini di Collestatte che aveva così implacabilmente trascinato davanti ai giudici.

Informato in carcere, Trentanni, che era detenuto ad Alessandria, dette mandato ad un avvocato perché attivasse ogni meccanismo possibile. Il legale presentò un memoriale in Corte di Cassazione chiedendo la revisione del processo proprio alla luce delle nuovo dichiarazioni e della ritrattazione del principale accusato a suo tempo riguardo la complicità di Cornacchia e Trentanni.

La riunione della Suprema Corte per discutere sull’ammissibilità della richiesta fu fssata per il 23 novembre 1955. Quel giorno naufragarono definitivamente tutte le speranze per gli incarcerati, a loro dire ingiustamente. Speranze che erano state ridimensionate già al momento in cui il Procuratore Generale aveva pronunciato la propria requisitoria definendo inammissibile l’istanza di revisione del processo. La Corte decise di conseguenza: nella richiesta presentata non c’erano elementi sufficienti per avviare un procedimento di revisione.

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