“C’è la peste”: il vescovo sale in cima a Torre Barbarasa

“C’è la peste!”, e subito corse il terrore in città. A Terni la notizia arrivò nel mese di gennaio del 1656. E immediatamente si diffuse, passando di bocca in bocca. Anche se non s’erano ancora registrati casi in città, era necessario correre ai ripari. Subito. Il consiglio cittadino si riunì d’urgenza e nominò una commissione sanitaria composta di dodici cittadini, due per ogni rione. Loro compito era sorvegliare, con soldati armati, Porta Romana e Porta Spoletina, i due ingressi principali alla città, per impedire il passaggio a persone che provenissero dai territori in cui la peste si era già diffusa. Il primo focolaio della malattia, sembra fosse a Napoli.

Non solo la vigilanza, comunque: immancabile, a quei tempi, il ricorso alle funzioni religiose espiatorie. Le celebrazioni si susseguivano a ritmo serrato in Duomo e nelle chiese dedicate ai due santi protettori di Terni, San Valentino e San Procolo. In aggiunta, comunque, si dichiarò lo stato di allerta delle congregazioni sanitarie le quali stabilirono, per prima cosa, l’apertura di un lazzaretto la cui sede fu individuata presso il santuario francescano delle Grazie, allora fuori città. Li venivano condotti tutti i viaggiatori provenienti dalle zone sospette. Tutto pagato con denaro pubblico.
La città intera fu posta sotto stretta sorveglianza: furono chiusi le osterie e gli altri luoghi di ritrovo; per vagabondi ed accattoni fu posto il divieto di girovagare.
Però tutto ciò non bastò: i primi casi di peste furono registrati all’inizio dell’estate nel quartiere del Duomo. Un anno dopo, nel giugno del1657, il vescovo, Sebastiano Gentili, vista la situazione, organizzò una grande processione per le strade cittadine ed a conclusione salì sulla torre Barbarasa, l’edificio più alto di Terni, portando con sé la reliquia del Preziosissimo sangue. Da lì invoco protezione divina e benedisse la città. Dall’alto, per essere, evidentemente, più vicino al “destinatario” della supplica e, nello stesso tempo, nel rendere plateale la sua azione, trasmettere un barlume di fiducia in più ai fedeli. A ricordo di questo atto fu incisa una Lapide, posta sulla torre Barbarasa. E’ da tempo illeggibile. Il testo è stato però riportato Elia Rossi Passavanti nel suo libro «Terni nell’età moderna», dove si narra, in sostanza l’episodio, ed in più si specifica che l’iniziativa di porre quella pietra «ad imperitura memoria» fu di Felix Barbarasius, Felice Barbarasa. Illeggibile è anche l’altra lapide, gemella della prima, che nel 1658 fu posta a Porta Romana. Difficile decifrarla, ma s’è quasi sicuri che vi sia scritto: «Essendo Papa Alessandro VII, al tempo del contagio il muro collassò a causa delle vetustà. I ternani per restituire decoro, con denaro pubblico, eressero le mura». Insomma ripararono le mura cittadine di Terni, crollate perché troppo vecchie. Questione di decoro, certamente, ma anche misura adatta ad evitare che qualcuno che non doveva entrasse in città approfittando di quella breccia.
Entrambe le lapidi sono da secoli abbandonate all’incuria.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Altri articoli sulla storia di Terni nei secoli scorsi⇒

/ 5
Grazie per aver votato!