La frescura. Il silenzio. La pace. E i tre frati che mangiavano, senza parlare. Una specie di incantesimo che andò in frantumi all’improvviso. Qualcuno bussò. Fra’ Natale, senza dir niente, s’alzò con un fruscio della veste, andò ad aprire. Un lampo d’inferno, sibito dopo. Il frate stava tirando a sé il battente quando fu colpito. Un fendente di violenza inaudita menato con un grosso bastone. Colpito in testa nemmeno un fiato fece in tempo ad emettere, non un lamento. Altri colpi, selvaggiamente, lo finirono. Fra’ Emilio e Fra’ Alfonso, accorsi, furono assassinati nella stessa, identica maniera, ancor prima che potessero rendersi conto. Con loro fu assasinato un ragazzo di 14 anni di Sant’Urbano, Agapito Salvati, il “garzone” del convento. Lo trovarono, i carabinieri. La testa fracassata. Era ini una delle grotte che avevano a suo tempo ospitato San Francesco. Forse, il ragazzo, aveva cercato di nascondersi,ma lo stanarono e l’uccisero per non lasciare testimoni.
Una strage. Compiuta a scopo di furto, dissero gli inquirenti, dopo le prime indagini. Le cellette dei frati erano state messe a soqquadro, fatta eccezione per una, quella di Fra’ Emilio. Forse i ladri e assassini non avevano avuto il tempo di completare l’opera alla ricerca di cose di valore. Ma cosa s’aspettavano di trovare in un piccolo eremo francescano?
Andò di lusso alla lavandaia del convento, che salita allo speco dal vicino paese di Vasciano, dove abitava, mezz’ora dopo mezzogiorno andò a bussare alla porta, richiusa dai banditi. Forse lei fu la causa del “lavoro” non finito. Non ottenendo risposta la lavandaia pensò che i frati stessero riposando e così fece dietrofront.
Le indagini non portarono ad alcuna conclusione. Chi aveva compiuto quella strage selvaggia? C’era qualcuni che avesse un conto aperrto coi frati? E per quale motivo? A chi potevano aver fatto saltare la mosca al naso quelle persone dedite più che altro alla meditazione?
Una pastorella, riferì ai carabinieri di aver incontrato, quella domenica mattina, poco dopo l’alba, nella macchia, quattro persone che le intimarono, minacciandola di morte, di andarsene alla svelta e di tenere la bocca chiusa. La ragazziona non seppe descrivere quegli uomini. Il terrore ebbe buon gioco. Qualcuno pensò alla banda del brigante Ansuini, che in quel periodo, dopo essere evaso dal carcere di Roma, era tornato ad operare nel Viterbese ed in Maremma. La pista fu presto abbandonata. Ansuini, umbro di Norcia, poteva conoscere la zona, ma da bandito esperto qual era non poteva illudersi di trovare chissà quali valori in quel convento. E poi, lui, era uno sfrontato e di solito firmava le sue azioni delittuose lasciando un biglietto di scherno ai carabinieri. Era fatto così… E allo Speco di Sant’Urbano di biglietti indirizzati all’Arma non ce n’erano.
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