Cianetti, una grande carriera iniziata con un ceffone

Ma come! Lui Tullio Cianetti di Assisi, lui che fu in prima fila alla marcia su Roma. Lui centurione della milizia, capo dei sindacati fascisti in Umbria,  e numero uno del fascismo ternano doveva farsi da parte e lasciare il posto ad Elia Rossi Passavanti? No, Tullio Cianetti, non era minimamente disposto.  E glielo disse in faccia, al conte, quello che pensava di lui: che era un raccomandato,

che doveva tutto alla sua stretta – troppo stretta – amicizia che sia lui che sua moglie coltivavano con Gabriele D’Annunzio, col quale vissero fianco a fianco ai tempi di Fiume. E poi il conte a Terni era troppo acquiescente con gente che tanto fascista non era.

Fu uno scontro rovente. Offese da lavare col sangue, giudicò Elia Rossi Passavanti, colonnello, medaglia d’oro della prima guerra mondiale. E  contemporaneamente stampò sul volto di Cianetti uno schiaffone di quelli che lasciano il segno delle dita per una settimana. Fini con un duello alla sciabola, All’ultimo sangue, dissero lì per lì. Poi, in verità, si fermarono al primo, che fu quello dell’avambraccio di Cianetti, raggiunto da un paio di sciabolate.
L’Umbria, a quel punto, era troppo piccola per tutti e due e cosi, dall’alto, si decise che Cianetti il capo del sindacato doveva andare a farlo a Siracusa. Era il 1924. Cianetti dovette fare i bagagli. La vendetta la consumo fredda. Anni dopo. Elia Rossi Passavanti, dopo essere stato a Terni podestà e capo del partito, oltre che deputato, era stato giubilato e ridotto a girare l’Italia per le manifestazioni di propaganda dell’arma di cavalleria. Tullio Cianetti da Assisi, classe 1899, contadino fino a 18 anni, aveva invece fatto una grossa carriera. Era il capo indiscusso dei sindacati fascisti, ministro delle Corporazioni e membro del Gran consiglio del Fascismo.
Quella notte, alla riunione del Gran Consiglio Cianetti votò a favore dell’ordine del giorno Grandi, quello che ribaltò Mussolini. Ma dieci ore dopo sul tavolo del cavaliere c’era una sua lettera di scuse: mi sono sbagliato – spiegava – il mio voto a favore dell’ordine del giorno lo ritiro. “Avevo capito – si giustificava – che l’ordine del giorno servisse a rendere più compatte le schiere del Pnf, che la risposta all’invasione della Sicilia sarebbe stata più forte, che la monarchia sarebbe stata chiamata a far fronte alle sue responsabilità”. Non c’era arrivato a comprendere che la richiesta contenuta nell’ordine del giorno Grandi, con cui si chiedeva – come noto – che il re assumesse il comando dell’esercito, serviva a far fuori Mussolini da capo del governo.
Ci credette, Mussolini, all’ingenuità di Cianetti? Forse si, considerata la fedeltà indefessa del soggetto in tutto ciò che era fascista. E comunque quella lettera salvò la vita a Cianetti quando comparve, insieme agli altri gerarchi, a rispondere dell’accusa di tradimento davanti al tribunale della Repubblica di Salò, a Verona. “Solo tu!”, gli urlò sprezzante Galeazzo Ciano alla lettura della sentenza. Già, solo Cianetti, scampò la condanna alla fucilazione e se la cavò con trent’anni di carcere. Memorabile il suo intervento dal banco degli imputati per dimostrare la sua fede nel fascismo e nel suo duce. Parlò per un’ora e mezza raccontando del suo impegno di sindacalista, illustrando la dedizione completa al partito cui, specifico, aveva sacrificato anche la propria vita sessuale. Raccontò dei ceffoni che aveva distribuito ai soldati per spingerli a combattere (di quello incassato da Rossi Passavanti non fece cenno).
Caduta la repubblica di Salò, finita la guerra, Cianetti restò in carcere. Nel 1947 usci per amnistia. Se ne andò in Uruguay, a Montevideo, e nessuno parlò più di lui. Fino al 1976, quando ai primi di agosto sui giornali italiani usci un trafiletto: “E’ morto Cianetti, ex ministro delle corporazioni”.

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 Cianetti, una grande carriera grazie a un ceffone

Su Cianetti e il sindacato corporativo vedi: R.Rago, Il fascismo a Terni

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