Valenzia, la città del mito e gli scavi di Maratta

 

Valenzia, città mitica, leggendaria. Città fantasma oppure città dei morti. Luogo sacro o fortificato. Luogo di confine o capoluogo raccordo e centro di attrazione di città vicine. Sono tanti gli interrogativi. Come si conviene per una città la cui esistenza è accennata – appunto – in leggende, favole. La città progenitrice. Da cui nacque Interamna, Terni. Storici locali si sono sbizzarriti

Maratta valenzia valentianel corso degli anni a cercare le prove della sua esistenza storica, o almeno a individuare il luogo in cui più o meno sorgesse circa mille anni prima di Cristo.
Una città che sarebbe stata se non la capitale sicuramente una delle maggiori tra quelle fondate ed abitate dal popolo dei Naharki o Naharti, la gente del Nera. Quella gente che seppelliva i propri morti nella grande necropoli così ricca e vasta che dall’odierna stazione ferroviaria ternana si estendeva fino alla collina di Pentima. Migliaia di sepolture, come si sa.

Un dato di fatto, per quanto riguarda Valentia (è la grafia latina) c’è: una lastra di marmo che sicuramente era conservata a palazzo Carrara quando Elia Rossi Passavanti ebbe la possibilità di leggerne il testo e riportarlo nel suo libro “Interamana Nahars”, pubblicato nel 1932. Pochi versi in latino (molte parole sono mancanti) scritti per iniziativa di una domina “Atinatia Vereconda della gente Fructa”. In essi c’è un avvertimento: “Chiunque tu sia che entri nel mio possedimento sottostante ai boschi e ai monti bigemini di Interamna… del tempio santo… diruto di Valenzia santa…”.
Si parla, sottolineano alcuni studiosi di storia ternana, di un luogo sacro dedicato a Valenzia, che si sarebbe trovato nei boschi sottostanti ai “monti bigemini”. Di una santa Valenzia parla Francesco Angeloni, il quale riferisce che nel tempio di Marte (oggi la chiesa di San Lorenzo) si venerava anche la “Deità Valentia”, che si volle come protettrice avendo il Municipio di Terni “presa in particolare venerazione le supreme virtù dei Romani”. Valentia (qualche legame con Valentino?), era quindi deità cittadina intorno al settimo–sesto secolo aC. Niente a che vedere col tempio santo di cui scrive la domina Atinatia? Per Piero Bocci, instancabile ed appassionato ricercatore, ipotizza che Atinatia, parli non di un unico tempio, ma di templi e di Curie della dea Valenzia (Valentia nella grafia latina): deducendone che “molto vicino ad Interamna, ma molto più antica di essa, vi fosse una città con questo nome” (P.Bocci, I Paleoumbri Naharki). Un po’ poco? Bocci individua anche una possibile prova “documentale” dell’esistenza di tale città, in un’iscrizione tombale etrusca. Alla necropoli di Chiusi le sepolture indicano, spesso, anche la zona di provenienza del defunto: su una delle tombe è indicato che la città di origine dell’ospite del sepolcro è Velxa e, attraverso una complicata serie di confronti di innumerevoli testi, arriva, Piero Bocci, a individuare Velxa come Valenzia o, in latino, Valentia.
Ma, allora, dove si trovava questa città mitica? C’è un qualche riferimento a quella zona di Terni ancor oggi denominata “vocabolo Valenza”? Interamna nacque su una specie di penisola limitata dalle acque del Nera e del Serra–Tessino; nella zona nord est rispetto a questo sito si snodava la grande necropoli. Se era a pochi chilometri di distanza, Valenzia, sorgeva comunque non lontano dal fiume, dal Nera. Quindi non sulle falde dei monti di Miranda, laddove si trova appunto il vocabolo Valenza, secondo Bocci, sorgeva la città mitica, ma semmai nella pianura.
Che così fosse lo si potrebbe dedurre dal riferimento di Atinatia ai “monti bigemini”, vale a dire alla montagna “cosmica” ( e quindi luogo sacro) di Sant’Erasmo, il monte che svetta sopra Terni, luogo dedicato alla sacralità: lassù sono stati ritrovati segni di templi antichissimi; lassù sorge ancor oggi una chiesa; persino, ed anzi soprattutto, le teorie ufficialmente inaccettate sull’origine celtica dei ternani fanno della montagna sopra l’abitato di Cesi, un luogo sacro. E la stessa Cesi non sarebbe stata altro che la cittadella fortificata (come testimoniano alcuni tratti di mura lelasgiche) costruita a protezione della cima sacra del monte sovrastante. La struttura classica, riferiscono gli appassionati di storia locale che hanno affrontato l’argomento, era più o meno sempre la stessa: un luogo sacro in alto, una fortificazione di difesa a mezza costa, e insediamenti abitativi verso valle e verso un corso d’acqua.
Come a dire che dopo la individuazione recente di segni di insediamenti umani nella zona di Maratta (nel 1998, e in questi giorni) quegli stessi storici che vanno in cerca di Valenzia, la città del mito, inzupperebbero il pane della loro fantasia, delle loro ricerche e comparazioni di prove più o meno storiche. D’altra parte a spingerli è la forza della curiosità, la sete di conoscenza di un passato troppo alla svelta dato per inesistente dagli stessi discendenti dei Naharki.

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(Pubb. in Messaggero Umbria del 10 gennaio 2015)

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