1948, per i comunisti umbri scomunica anticipata

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(da L’Avanti!)

La riunione ebbe luogo nella Casa del Sacro Cuore, sede della Conferenza episcopale umbra, a Perugia. Era l’11 maggio 1948. Meno di un mese prima c’erano state le elezioni politiche e nella circoscrizione elettorale Perugia-Terni-Rieti il risultato non era tanto rassicurante per i cattolici: il Fronte Popolare aveva superato il 43%, contro il 39% della Democrazia Cristiana.

Insomma, tutti quei comunisti creavano una qualche preoccupazione. E così, tanto per essere chiari e perché sia i rappresentanti del clero che i fedeli avessero indirizzi di comportamento precisi, l’episcopato umbro adottò una serie di decisioni che anticipavano nei contenuti e nella sostanza la decisione assunta nel 1949 dal Sant’Uffizio nota come “la scomunica ai comunisti”.

I vescovi delle province di Perugia, Terni e Rieti emisero quindi un vademecum che resero noto a tutti attraverso l’affissione di manifesti all’interno delle chiese e la diffusione di specifici stampati.

“Chi professa teorie eretiche, condannate dalla Chiesa (come ad esempio chi è ascritto al comunismo ecc.) qualora sinceramente ed apertamente non si ricreda”, avvertiva l’episcopato umbro, dovrà subire una serie di effetti negativi nei propri rapporti con la fede. E così non potrà, spiegavano i manifesti su cui era stato stampato il vademecum, “venire assolto dai suoi peccati in Confessione; far da padrino o madrina al Battesimo e alla Cresima” né essere “ascritto alle Confraternite e Pie Unioni né potrà avere l’incarico di Priore o santese ecc. per l’organizzazione delle feste parrocchiali, né avere la sepoltura ecclesiastica”.

Per fare in modo che non ci fossero eccezioni o sotterfugi i vescovi umbri informavano che erano dichiarati decaduti, per le rispettive diocesi, “tutti indistintamente gli attuali ascritti a Confraternite o Pie Unioni” e nominavano “ipso facto, il parroco come commissario straordinario”.

In merito al matrimonio–> si rimandava ai dettati del Codice di diritto canonico e comunque il matrimonio religioso non era consentito, e – così come chiunque professasse teorie eretiche – non poteva avere benedetta la casa.

Però era possibile – ricordavano i vescovi umbri – benedire le bandiere di associazioni, pie unioni e organizzazioni dipendenti dall’autorità ecclesiastica ed eventualmente di associazioni i cui fini “non contrastino né direttanemente né indirettamente con la dottrina della Chiesa. Tuttavia nei singoli casi “si dovrà sempre avere il permesso della Curia docesana”. Ovviamente non si potevano benedire le bandiere dei partiti politici. Solo le bandiere benedette potevano entrare in chiesa o prendere parte alle processioni.

Restava da spiegare e chiarire cosa sarebbe successo per i funerali. Anche in merito al corteo funebre. I vescovi umbri stabilirono che “nella parte che precede il feretro non debbono mai essere ammesse bandiere non benedette, se a forza e con violenza fossero introdotte, il sacerdote lascierà (sic!) il corteo e si ritirerà togliendo la stola”.

Le norme – si concludeva  – sarebbero entrate in vigore al momento della pubblicazione sul Bollettino diocedano, e saranno rese pubbliche attraverso manifesti affissi all’interno delle chiese e stampati “per evitare sorprese o inutili lamentele”.

Seguivano le firme dei vescovi: Mario, arcivescvo di Perugia; Giuseppe, vescovo di Città della Pieve; Placido, vescovo di Assisi, Alfonso Maria (Todi), Settimio (Norcia) Beniamino (Gubbio), Filippo Maria (Città di Castello), Vincenzo (Amelia), Felice (Amministratore apostolico di Terni e Narni), Benigno Maria (Rieti), Francesco (Orvieto), Costantino (Nocera e Gualdo Tadino), Secondo (Foligno).

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